simtur apre un tavolo nazionale sulla situazione dei centri storici. Non solo per ragionare di capacità di carico ed economia dei visitatori, ma per ritrovare la dimensione del “centro storico”, luogo di comunità e di scambi. Con il coordinamento di Daniela Cavallo

Il centro storico di Verona diventa un laboratorio nazionale, a cura di un gruppo di studiosi del comitato scientifico di simtur, stcc – sustainable tourism competence center.

Lo stato dell’arte

Troppa confusione e incapacità di gestire la complessità che lo definisce, oggi dobbiamo mettere a fuoco l’oggetto in analisi: cos’è un centro storico?

Vista l’entità del danno, tra spopolamento, chiusura di esercizi commerciali, invivibilità, perdita di identità, inaccessibilità, è una domanda alla quale abbiamo fatto sempre fatica a dare una risposta precisa, ma che sempre più si presenta come questione comune di una città in totale trasformazione, senza consapevolezza, che sta sfuggendo di mano.

Nel tempo abbiamo perso il senso del centro storico, l’anima, una «perdita del centro» a dirla con Hans Sedlmayr, la scomparsa di una realtà divina dall’orizzonte umano, che si traduce ipso facto nella perdita di senso della vita umana, sino a propiziare la perdita di ogni percezione conforme a realtà, giustizia e ordine, in ogni ambito; nel nostro caso, nel contemporaneo, è la perdita del significato.

Nella storia, il centro storico è stato trattato come “oggetto”, espressione statica e materica della Storia, senza pensare che la Storia è tempo che passa, è per definizione in movimento, la Storia procede, e il territorio è un sistema vivente, dove la parola chiave è Relazione. Ce lo insegnano l’urbanista Alberto Magnaghi, nel 2000, con il suo far diventare il Territorio soggetto, e la Convenzione europea del Paesaggio dello stesso anno, che mette l’accento sull’interazione uomo/territorio.

Il centro storico, nella sua complessità, lo abbiamo considerato per compartimenti stagno, come accezione culturale, o urbanistica, prevalentemente, dimenticando quella antropologica, economica e identitaria, luogo per la comunità. Così ancora oggi abbiamo questo approccio arcaico e rigido, trattando il centro storico come materia morta; così è stato tema della Tutela in quanto Bene culturale, dimenticando che “cultura” è parola che viene da “cura” e da “cuore”: avere cura non solo dell’aspetto, ma dell’anima non è solo un fatto di estetica (restaurare le facciate, ecc), ma è fatto sociale.

Il Centro storico è stato per molto tempo considerato contenitore di singoli monumenti d’interesse e fine culturale, considerati nella loro individualità, fin dalle leggi del 1939 dove si tutela il Bene materiale, tanto che nella Legge 1089 si dice “Tutela delle COSE d’interesse artistico e storico”, non si considera l’ambiente, ovvero il luogo in cui si vive, le relazioni che lo definiscono, come se persone e attività commerciali non fossero materia da considerare. Quell’atteggiamento di musealizzazione, un congelamento dei luoghi che ha portato oggi alla paralisi, anche dell’abitare, del commerciare, del vivere in una dimensione passiva del luogo e non attiva. Da qui derivano le istanze di chiusura alle auto, per un godimento estetico senza un ragionamento né un tempo di inserimento di servizi sostitutivi, perché il Centro storico non è più considerato luogo da vivere.

Certo, nel tempo pian piano si sono messi in mezzo i valori culturali, si è parlato di tessuto urbano e negli anni Sessanta, con la Commissione Franceschini (1960) e con la Carta di Gubbio (1964), ha cominciato a insediarsi il dubbio che il Centro storico non fosse solo materia, ma avesse valore di civiltà.

La Commissione Franceschini, istituita dalla legge n. 310 del 26 aprile 1964 e che opera fino al 1967, definisce centri storici urbani “quelle strutture insediative urbane che costituiscono unità culturale o la parte originaria e autentica di insediamenti, e testimonino i caratteri di una viva cultura urbana”. Viva cultura urbana, questa è l’eredità che dobbiamo portare avanti: il Centro storico è luogo dell’abitare, del vivere, dunque del commercio dello scambio economico sociale e culturale. Questo manca, un nuovo modo di guardare al Centro storico, per non perdere l’anima delle nostre città.

Il Centro storico è un costante conflitto di opinioni che viviamo ancora oggi, in una complessità che è andata aumentando, prevalentemente tra istanze culturali e urbanistiche: oggi invece più forti sono quelle sociali, antropologiche ed economiche. Il centro storico di un comune o di un centro abitato è quella «parte del territorio comunale di più antica formazione sottoposta a particolare tutela per assicurare la conservazione di testimonianze storiche, artistiche, ambientali», così lo definisce il glossario di Urbanistica.

Spesso dimentichiamo l’oggi, il contemporaneo, dimentichiamo che “gli organismi urbani di antica formazione hanno dato origine alle città contemporanee”, come recita la legge regionale del 22 dicembre 1999, n. 38, relativa alle Norme del governo del territorio che definisce i centri storici, non inserendo criteri  temporali, ma facendo riferimento a parametri derivanti dalla presenza antropica, e aggiunge  “i cui interessi ed esigenze modificano costantemente il territorio”.

Ecco, un soggetto vivente di cui dobbiamo oggi capire bisogni e trasformazioni che ci stanno sfuggendo di mano.

Una questione di identità

Il tema poi dell’identità che il centro storico rappresenta, e di cui siamo responsabili, è introdotto dal Comitato internazionale delle città e dei villaggi storici (CIVVIH) fondato nel 1982 dall’ICOMOS, adottato nel 2011, che aggiorna gli approcci e le considerazioni contenute nella Carta di Washington (1987) e nelle Raccomandazioni di Nairobi (1976), e riflette una maggiore consapevolezza relativa al patrimonio storico e al valore identitario di centro storico: “Le città e le aree urbane storiche sono costituite da elementi tangibili e intangibili. Gli elementi tangibili includono, oltre alla struttura urbana, gli elementi architettonici, i paesaggi all’interno e intorno alla città, le testimonianze archeologiche, i panorami, i profili urbani, le prospettive e i punti di riferimento. Gli elementi intangibili includono le attività, le funzioni simboliche e storiche, le pratiche culturali, le tradizioni, le memorie e i riferimenti culturali che costituiscono la sostanza del loro valore storico. Le città e le aree urbane storiche sono strutture spaziali che testimoniano l’evoluzione di una società e della sua identità culturale. Esse sono parte integrante di un più ampio contesto naturale o antropizzato dal quale devono essere considerate inscindibili. Città e aree urbane storiche sono la testimonianza vivente del passato che le ha generate. Le aree storiche o della tradizione sono parte della vita quotidiana delle persone” come un complesso unitario caratterizzato dalla presenza umana, segnato da individui che vi abitano, marcato da “una comunità individuata per una serie di interrelazioni economiche e culturali“.

Così, se il Diritto interviene sulla Tutela, la Governance deve intervenire sulla vita del luogo, attraverso la costruzione di una visione, attraverso la politica (come Polis); così se il centro storico deve essere armonico e omogeneo per la disciplina del diritto, è esattamente il contrario per la sociologia e l’antropologia, dal punto di vista umano, ma continuiamo a spingerlo in categorie che stanno ormai strette, o in modelli non idonei. Forse non sappiamo fare altro.

Feliciano Benvenuti, giurista, definisce il centro storico come un luogo abitato caratterizzato da una ”individualità storica tale da rappresentare un unicum”, è “il paesaggio dell’uomo”. E Donatella Fiorani, docente universitaria, sottolinea che “l’abbandono dei centri storici è un fenomeno di natura demografica che rimanda a problematiche complesse, al tempo stesso sociali, economiche, fisiche e materiali. Malgrado l’interesse per il fenomeno da parte degli studiosi e di associazioni, il fenomeno dell’abbandono può trovare una soluzione solo nel contemperamento di istanze diverse in grado di coniugare i fattori culturali con quelli sociali ed economici”.

Parliamo di urbanicidio?

Urbanicidio” è il termine che di recente si usa per i Centri storici, omologato dallo strapotere dei marchi internazionali, dalla fine delle botteghe artigiane e della gastronomia locale, dalla fuga dei residenti, facendo così scomparire l’unicità sulla via della omologazione dove i monumenti saranno sempre più quinte scenografiche.

E se parliamo di turismo, dobbiamo guardarci dentro, dobbiamo andare a rileggere quei “Viaggio in Italia”, da Goethe fino a Guido Piovene, il quale affermava: «L’italiano che emerge in me […] è uno dei modi dell’altrove; […] l’Italia è estero. È un luogo da raggiungere, un luogo lontano. È fuori». Chi da italiano viaggi in Italia deve diventare italiano: e dell’Italia sa così evitare i luoghi comuni, appunto le mitologie, i paesaggi cartolinizzati (…) il «fotografare anonimo, infinito, nevrotico e insensibile, questa specie di benda volontaria sugli occhi che impedisce di guardare il mondo». Piovene si sposta nelle pieghe e nelle intermittenze di un paesaggio che è, anzitutto, il proprio paesaggio mentale, ne sa scoprire l’identità multianime, la segreta estraneità del noto e, viceversa, la perturbante familiarità di quel che si vede per la prima volta, ne mette a fuoco le rimosse realtà di provincia che restano il DNA antropologico profondo, ineliminato, di quanto continuiamo a chiamare italianità».

Ogni centro storico è l’immagine visibile della nostra italianità, non abbiamo bisogno di adattare modelli vecchi, incongrui, o che dalle nostre città hanno preso spunto (vedi la città dei 15 minuti), abbiamo bisogno di fare dei Centri storici italiani un laboratorio serio per gestire la complessità prima di perdere anche l’identità. senza ridurre la cosa a una baruffa chiozzotta tra commercianti e residenti, senza calare dall’alto Deus ex machina, abbiamo bisogno di unire le forze e confrontarci seriamente per una nuova idea contemporanea di Centro storico.

D’una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda”, diceva Italo Calvino.

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